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C’è una scena, in questo Joker di Todd Phillips, che è tanto ingiustificata e singolare sul piano del racconto (non aggiunge cioè nulla, né all’intreccio, né alla caratterizzazione del suo protagonista) quanto significativa su quello paratestuale, rivelatrice com’è del senso forse più profondo del film, svelato poi anche da tutta un’altra serie di scelte, che investono non solo la scrittura e il montaggio ma anche la direzione attoriale, il production design, l’impianto visivo. Si tratta di una ripresa di pochi secondi, in campo lunghissimo, delle strade di New York-Gotham City viste dall’alto. Come è naturale che sia per un’inquadratura di questo tipo è l’ambiente a dominare, non ci sono personaggi o volti umani riconoscibili, ma solo automobili che transitano su una normalissima strada metropolitana, irrilevante nell’economia narrativa.
Nessuno immagina un mondo, o un modo, in cui la passione ardente, il desiderio, il bisogno di farsi uno con l'altro e sentirlo, prima di tutto nella carne, possano smettere di turbarci, infiammarci, di esercitare una forza e un controllo tirannici, magnetizzando così lo sguardo, orientandolo a un unico punto di fuga, verso cui tutto, affetti, pulsioni, violenze, sembrano convergere. E questo punto è la verità (e nudità) del corpo, magro, spento, quasi trasparente, dei carcerati di El Principe; corpi logori, consunti dall'incedere di un tempo sempre uguale, le risse, le lotte interne per il potere, le giornate vuote, il nichilismo della dimensione carceraria arginato dal sentimento gradualmente riacquisito.
Dal lato oscuro della Luna, quella sua faccia buia e crivellata, sottratta allo sguardo e alla luce, sprotetta e dunque più esposta alla furia meteoritica, a quello non meno impenetrabile e martoriato del cuore umano. Che si tratti di un viaggio interspaziale, dalla Terra a Nettuno, o della spedizione amazzonica di un esploratore alla ricerca di una città perduta, James Gray sa perfettamente che ogni esplorazione scatena inevitabilmente un’implorazione, che ciò che scorre fuori non può che rifluire all’interno, che ogni scoperta porta con sé uno scoperchiamento, lo sgorgare di una materia nuova, ignota.
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La storia di un matrimonio non può che reggersi, dietro tutte le apparenze e illusioni, su un disequilibrio, su una serie sterminata di inaccessibili non-detti, quasi vogliano rimanere tali fino alla fine, fino al disfacimento previsto, scanzato. In Marriage Story di Noah Baumbach già si avvertono le brutture, gli scollamenti, dice Nicole alla sua avvocatessa, raccontandole la sua storia e confessandole quanto queste "piccole" cose venivano programmaticamente trascurate durante il suo rapporto con Adam, troppo egoista, troppo preso dalle proprie ambizioni.
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Ammetto di essere molto sensibile alla questione metacinematografica (o viceversa), alle possibilità immaginifiche offerte dalla teoria, dall’avvilupparsi del discorso teorico su di sé, che genera fantasmi al quadrato, denudati nella loro carne fittizia, pulsante; spire di realtà, mondi impalpabili, effimeri, accavallati uno sull'altro in una specie di osmosi, o al contrario di iato; perciò è automatico che quando mi ritrovo di fronte a un film di questo tipo, per quanto mi sforzi di rintracciarvi incongruenze, lacune macroscopiche, veri e propri tonfi, non posso che entusiasmarmi, posto che l'entusiasmo è qualcosa che ogni singola immagine, anche la più vile, si porta appresso sin dal suo sorgere.
Ad arginare il vuoto delle sale, sospese e spoglie, aride, come solo sanno esserlo durante i mesi estivi, ad agosto specialmente, c'è il Concorto Film Festival, che potrebbe essere definito l'oasi-indie italiana del cortometraggio: realtà culturale indipendente e risonante, ed unicum nel panorama cinematografico contemporaneo in Italia, per quanto riguarda la percezione collettiva della realtà delle "piccole" storie sul grande schermo.
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«Che vi sia parola e se ne veda il silenzio – e, in questo silenzio, appaia per un attimo la cosa restituita al suo anonimato, al non aver ancora o non aver più nome»: che questo silenzio prema alle fondamenta di ciò che urge d’essere nominato, di avere principio d’es-istenza, che questa essenza d’essere, o meglio dischiudersi d’essere sia contemporaneamente atto estremo nella distruzione, nella cosa che non è o non è più, come nella poesia errante di Caproni, tutto questo insistere e perdersi e resistere in ciò che merita di restare, di durare, di stare è la teoresi di Giorgio Agamben, del suo pensiero, in questo volume uscito due anni fa per «nottetempo» ma di grande in-attualità (come solo i classici sanno essere).
“Se c'è tra voi chi non conosca ancora
l'arte d'amare, legga il mio poema
e fatto esperto colga nuovi amori!
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S'è vero ch'è selvaggio e che sovente
scalpita e freme, Amore è ancor fanciullo:
docile età ch'è facile a guidarsi.”
(Ovidio, Ars amatoria)
Interrogandosi su che cos’è l’amore ci si espone spesso al rischio di immobilizzarlo su di un certo piano, su convenzioni predeterminate, sulla necessità che questo «sentire» umano esaudisca un complesso di aspettative piuttosto che un desiderio, un’aspirazione a realizzarsi e riconoscersi nell’incontro con l’altro. Nel tentativo di rendere meno impervio questo percorso, esistono, e sono senza dubbio sempre esistiti, dei tecnici dell’amore, traghettatori di anime dissipate, sfibrate dal logoro iter di “conquista” e “caccia”; strateghi, quindi, che avranno l’onere di impartire se non proprio delle regole assolute, almeno delle norme e l’amore con cui si ha a che faren consiste in una brama che tende verso un obiettivo definito fin dall’inizio, di impadronirsi cioè di un essere ben preciso, possederlo. Ci si chiede di conseguenza se «questo amore sia ancora amore» e quanto giovi a una sua autentica decifrabilità il ridurlo a una topografia chirurgica, volendo andare lineari da un prima a un dopo, deviando da intermittenze o cortocircuiti.
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Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.
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«Che ne è dell’io, che ne è di un io, se nel suo petto batte il cuore di un altro? Che cos’è un corpo, che cos’è il mio corpo, se la continuità della sua esistenza, se la sua sopravvivenza è affidata a uno straniero irriducibile e inassimilabile, a un intruso?»
L’intruso, Jean-Luc Nancy
Destinato a trasformarsi in un potente, intenso dispositivo di apertura, a un divenire sfolgorante, mai cauto o fermo, anzi meravigliato, tuttora innamorato delle cose del mondo, degli oggetti, delle sensazioni, di immagini e parole rubate, il cinema-sguardo di Claire Denis, fuori da coordinate spaziotemporali e di genere, autentico e vergine, in un certo senso, non esiste in altri luoghi che non siano i varchi lasciati aperti da ogni inquadratura, suono e immagine: quest’ultima intesa come travolgimento, valico di ciò che accade nell’istante. Di ricerca del significato intimo e dell’essenzialità delle cose.
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